mercoledì 26 gennaio 2011

"PI SAN MARTINU OGNI UTTI HA U SO VINU" per San Martino ogni botte ha il suo vino

Finita la fermentazione, il mosto diventa vino ma la buona o cattiva qualità, come il sapore, dipende molto dalla botte che, se è opportunamente curata, darà sempre ottimo vino.

Quindi, a novembre preso un campione di vino col "tasto" si procede all’assaggio e, quando non era destinato al commercio all’ingrosso, si travasava in un’altra botte pulita e disinfettata per farlo invecchiare, per consumarlo in famiglia e per commerciarlo a minuto mettendo davanti la porta un fascetto di rami con foglie di carrubo ossia "fraschi i carruva". Quindi nella botte si metteva il "cicaluoru" che più tardi veniva sostituito dal rubinetto in quanto più pratico per piccoli prelievi di vino che veniva scrupolosamente misurato prima di versarlo con l’imbuto nelle bottiglie, magari prima facendone assaggiare un bicchiere, preso dalla caraffa o "cannatuni" smaltato, che normalmente stava al di sotto del rubinetto per recuperarne le eventuali gocce.

Ma, data la notevole produzione e la forte gradazione alcolica e il sapore corposo, oltre l’80% del vino veniva destinato all’esportazione che si effettuava a Malta, in Francia, nel nord Italia e finanche in America, dove veniva usato per tagliare e per migliorare i vini locali.

Tasto, dal latino Taxare, in siciliano Tastu.

Strumento, fatto artigianalmente di canna, che utilizza il più capace dei cannoli estremi nel quale è praticata una piccola apertura nella parte superiore. Ciò consente, immergendolo nel vino dal foro esistente nella pancia della botte, di prelevare un piccolo campione da assaggiare, in siciliano "tastari" da cui il nome "tastu".

Strumento, fatto interamente in latta, che si basa sull’enunciato di E. Torricelli messo in pratica agli inizi del 1900 dal lattoniere Zarino Vincenzo. In base a questo principio fisico, chiudendo il buco superiore del lungo tubo di latta e introducendolo, dalla parte dell’ampolla, nella botte col vino, questo non poteva entrare nel tasto per via dell’aria presente, ma non appena si toglieva il dito dal buco, il tasto si riempiva, per cui richiudendo il buco, il vino, per via del vuoto, non poteva più fuoriuscire. Ciò consentiva di poter prelevare un campione del vino contenuto nella botte dalla profondità desiderata, mentre col tasto tradizionale di canna si prendeva sempre quello superficiale.

Cicchetto, dal francese Chiquer, in siciliano Cicaluoru.

Specie di tappo in legno, di costruzione artigianale, con foro passante e "spina" per chiuderlo, si metteva in basso nel "timpagnu" della botte e serviva per piccoli prelievi di vino da assaggiare.

Rubinetto, dal francese Robinet, in siciliano Rubinettu, anticamente Margarita.

Di produzione industriale, è costituito da due pezzi di legno leggermente troncoconici, di cui quello più grande ha un foro che, da una estremità, arriva ad incrociarsi con l’altro foro passante dell’altra estremità dove alloggia la cannula allo stesso modo forata. Ciò consentiva, con la rotazione della cannula, la fuoriuscita o no dei liquidi e, nel nostro caso, del vino. Veniva messo a circa 5 cm dal punto più basso del "timpagnu" della botte consentendo prelievi di modesti quantitativi di vino.

Litro, dal greco Litra, in siciliano Litru.

Si tratta di un’unità di misura per liquidi, come il vino. È costruito in latta, l’esemplare di cui trattasi ha il timbro dell’ufficio pesi e misure, che garantiva la misura verificata. Veniva usato nella vendita pubblica al minuto.















Mezzo litro, dal greco Litra, in siciliano Mienzu litru.

Si tratta di ½ dell’unità di misura, di costruzione artigianale, per liquidi come il vino. È costruito in latta, l’esemplare di cui trattasi non ha il timbro dell’ufficio pesi e misure, veniva usato nella vendita privata al minuto.
Un quarto di litro, dal greco Litra, in siciliano ‘Nquartu i litru.

Si tratta di 1/4 dell’unità di misura, di costruzione industriale, per liquidi, come il vino. È costruito in latta, l’esemplare di cui trattasi ha il timbro dell’ufficio pesi e misure, che garantiva la misura verificata. Veniva usato nella vendita pubblica al minuto.













Imbuto, dal latino Imbuere (p.p. Imbutum), in siciliano Mutu.

È realizzato artigianalmente interamente in latta, è costituito da una parte troncoconica da cui è ricavata una stretta fascia in alzata, tramite l’impiego di una macchina bordatrice, e dalla "cannedda", o cannula stretta che è saldata al vertice del cono. Serviva per il travaso dei liquidi in piccoli recipienti.











Fiasco, dal basso latino Flasco, in siciliano Sciascu.

Vaso in ceramica invetriata, di costruzione artigianale, di forma arrotondata con piede e bocca stretti e due manici opposti, per protezione è rivestito con strisce di canna e verga di olivastro lavorate come un corbello. Serviva per contenere il vino, che si poteva bere durante la giornata di lavoro.















Carratello, dal basso latino Carrata, in siciliano Carratidduzzu.

Contenitore di vino da ½ litro, di forma alquanto ovale.
È realizzato artigianalmente con tavole di castagno sagomate, o doghe, tenute da quattro cerchi ovali in sottile ferro piatto, o "raetta", di cui i due estremi trattengono il fondo e il coperchio, ossia "timpagni". Al centro del coperchio vi è un modesto foroper riempirlo di vino, che si beveva succhiando da un piccolo foro laterale, che veniva chiuso da una spina di legno.
Contenitore di vino da 1 litro, di forma alquanto ovale. È realizzato artigianalmente con tavole di castagno sagomate, o doghe, tenute da quattro cerchi ovali in sottile ferro piatto, o "raetta", di cui i due estremi trattengono il fondo e il coperchio, ossia "timpagni". Al centro del coperchio vi è un modesto foro per riempirlo di vino, che si beveva succhiando da un piccolo foro laterale, che veniva chiuso da una spina di legno.









Carratello, dal basso latino Carrata, in siciliano Carratieddu i na quartara.

Contenitore di vino da 10 litri, di forma alquanto ovale. È realizzato artigianalmente con tavole di castagno sagomate, o doghe, tenute da quattro cerchi ovali in sottile ferro piatto, o "raetta", di cui i due estremi trattengono il fondo e il coperchio, ossia "timpagni". Al centro del coperchio vi è un modesto foro per riempirlo di vino, che si beveva succhiando da un piccolo foro laterale, che veniva chiuso da una spina di legno.









Botte, dal basso latino Butta, in siciliano Uttaccieddu.

Contenitore da 5 litri per vino pregiato da offrire agli ospiti e perciò veniva messo in bella vista. Di forma alquanto cilindrica è realizzato artigianalmente con tavole di castagno sagomate, o doghe, tenute da sei cerchi in sottile ferro piatto, o "raetta", di cui i due estremi trattengono il fondo e il coperchio, ossia "timpagni".
Al centro della pancia vi è un modesto foro per riempirlo di vino, che si prelevava da un piccolo rubinetto sul "timpagnu".

Imbuto, dal latino Imbuere (p.p. Imbutum), in siciliano Mutu i buttigghi.

È costruito artigianalmente in latta e si compone di una parte troncoconica, o "pillirina", con al vertice saldata una cannula, o "cannedda", che ha nel lato interno una griglia, ricavata da un tondello di latta bombata, detta "sponza" e fungente da filtro durante il riempimento delle bottiglie.

Bottiglia, dal latino medioevale Buticola, in francese Bouteille, in spagnolo Botija, in siciliano Buttigghia.

Contenitore in vetro scuro, di costruzione artigianale, per liquidi come il vino, di forma cilindrica un po’ svasata, con un collo che si restringe in modo da avere una bocca stretta che veniva chiusa da un tappo di sughero.

















Fiasco, dal basso latino Flasco, in siciliano Fiascu.

Contenitore di vetro, di produzione industriale, a forma di ampolla o sfera, con alto collo che si restringe in modo da formare una bocca stretta che veniva chiusa da un tappo di sughero. Per protezione, e per questioni di stabilità, doveva essere per forza impagliato con foglie di una pianta acquatica, detta "ura".
Contenitore in vetro scuro, di costruzione artigianale, per liquidi come il vino, di forma cilindrica un po’ svasata, con un collo che si restringe in modo da avere una bocca stretta che veniva chiusa da un tappo a scatto in porcellana, con guarnizione in gomma.



















Boccale, dal greco Baukalis, in latino Baucalis, in siciliano Bucali, propriamente Cannatuni.Bicchiere, dal latino Bucar, in siciliano antico Bàcara, in siciliano Bicchieri.

Contenitore grande in ceramica invetriata, di costruzione artigianale, per vino, di forma grossomodo cilindrica, con un manico e nel lato opposto un beccuccio pronunciato per versare il vino. È decorato con mulino, fiume e albero a colori giallo, verde, marrone e azzurro, su sfondo chiaro.
Piccoli vasetti in vetro chiaro, di costruzione artigianale, robusti e tozzi di forma grossomodo cilindrica per mescervi il vino negli assaggi, brindisi, ecc..

"U CUOTTU" ossia il vino cotto

Questi non è altro che il succo dell’uva appena spremuta che veniva bollito fino a farlo ridurre ad un terzo e quindi, dopo averlo fatto raffreddare, si mescolava con l’altro mosto facendone innalzare il grado alcolico, ma più spesso veniva conservato in damigiane di vetro per usarlo in inverno come sciroppo per la tosse o per fare dolci.

Questi si facevano in qualsiasi momento e particolarmente prima di finire la vendemmia, per offrirne agli amici e parenti che non avevano vigneti.

Fra i dolci più popolari sono da annoverarsi "a mustata", fatta con mosto cotto e semola, nelle caratteristiche forme di argilla smaltata, "i mastazzola, i cuddureddi", ecc., che venivano preparati con farina di semola, mandorle a pezzetti e il "cuottu" o vino cotto.

Mezzo arancio, dal basso latino Arangia, in siciliano Mienzu aranciu.

Grande recipiente senza manici fissi, costruito artigianalmente in rame martellato e stagnato, dove si metteva a cuocere il mosto per fare il vino cotto, che si utilizzava per innalzare il grado alcolico del rimanente mosto, o quale sciroppo per la tosse, o per fare mostaccioli o "mastazzola, mustarda", ossia dolci in genere.

Bottiglia, dal latino medioevale Buticula, in siciliano Buttigghiuni.









Si tratta di un recipiente, di costruzione artigianale, in vetro scuro, di circa 10 litri, che per protezione è impagliato con una "cruvidduzza" fatta di canna e verga di olivastro. Ha una forma quasi cilindrica con un collo che si restringe formando una bocca stretta che veniva chiusa da un normale tappo di sughero. Serviva per contenere liquidi, in genere, e vini speciali come il vino cotto ecc..







Bottiglia, dal latino medioevale Buticola, in siciliano Buttigghiuni.

Si tratta di un recipiente, di produzione artigianale, in vetro verde chiaro, di 15 litri circa, privo di impagliatura di protezione. Ha una forma quasi cilindrica con un collo che si restringe formando una bocca stretta che veniva chiusa da un tappo di sughero. Serviva per contenere liquidi, in genere, e vini speciali, come il vino cotto, ecc..

Si tratta di un recipiente, di produzione industriale, in vetro verde smeraldo, di 15 litri circa, che per protezione è impagliato con un corbello in "ura, canna e verga". Ha una forma quasi cilindrica con un collo che si restringe formando una bocca stretta chiusa da un tappo a scatto in porcellana. Serviva per contenere liquidi, in genere, e vini speciali, come il vino cotto, ecc..














Damigiana, dall’arabo volgare Damigana, in siciliano Damiggiana.

Si tratta di un recipiente in vetro verde smeraldo, di 10 litri circa, che per protezione è impagliato con un cesto in verghe di castagno e tavole, costruito in modo industriale. Ha la forma di grossa ampolla, quasi a palla, con un collo che si restringe fino ad una bocca stretta che veniva chiusa da un tappo a scatto, mancante. Serviva a contenere liquidi, in genere, e vini speciali, come il vino cotto, ecc..
Si tratta di un recipiente in vetro verde smeraldo, di litri 5 circa, che per protezione è impagliato con un cesto in verghe di castagno, costruito in modo industriale. Ha la forma di grossa ampolla, quasi a palla, con un collo che si restringe formando una bocca stretta chiusa da un tappo a scatto di porcellana. Serviva per contenere liquidi, in genere, e vini speciali, come il vino cotto, ecc..







Forma, dal latino Forma, in siciliano Forma.

Formella in argilla invetriata, di costruzione artigianale, con bassorilievo in negativo di Gesù Bambino così che colatavi la mostarda, fatta con mosto cotto e semola, e sformata, non appena fredda la figura veniva a rilievo

"U PALLUMMIENTU"ossia il palmento greco

Successivamente l’uva veniva ripestata con pesanti scarponi chiodati e ridotta in poltiglia, alla fine della pigiatura con forconi e pale di legno veniva buttata nel tino, dove si era raccolto l’ulteriore succo, lasciando il tutto a macerare e fermentare per almeno 12 ore. Ciò consentiva di avere un vino corposo, di largo consumo in tutta la Sicilia specie nell’interno, mentre lasciando fermentare nel tino il mosto da 36 a 48 ore si ottenevano i vini rossi da taglio che servivano per colorare e aumentare il contenuto alcolico dei vini leggeri, migliorandoli.

Finita la fermentazione, si procede alla torchiatura delle vinacce separandole dal mosto con i "cancidduzzi i sfussari", cioè uscire dal fosso (ossia tino) la poltiglia dell’uva che veniva ammassata nell’"aria" di centro per la spremitura. Questa avveniva nella pressa tradizionale, inventata nel periodo greco, che era costituita da un lungo e grosso tronco di pianta di "ruvulu" (ossia quercia) che, come si può vedere dalle schede 39, 47 e 48, era incernierata alla base nel finestrale di centro esistente sul muro di fondo del palmento.

Il tronco, posizionato orizzontalmente, attraversava tutto il piano inclinato o "aria" di centro e il corrispondente tino arrivando oltre il centro del palmento con l’altra estremità a forma di forcella o di V. Qui, le due estremità erano collegate da un grosso tronco forato a cui si avvitava una lunga vite in legno duro di quercia. A questa vite, in basso, era fissata, con un grosso bullone di ferro detto "monicu", la "cianca", che era un grosso tamburo di calcare in pietra viva di Comiso.

Portato il braccio della pressa quanto più in alto possibile si accatastavano all’altra estremità, a forma di parallelepipedo, i raspi e i chicchi pressandoli bene e ritagliandoli con l’apposita accetta del palmento. Quindi, coprendo tutto con grossi "cippi" ossia traverse, si faceva abbassare il tronco girando al contrario la vite, posta all’altra estremità, fino a quando la "cianca" restava sospesa.

Si aveva così una leva di 2° genere, con il fulcro sul muro retrostante del palmento, la resistenza era costituita dai raspi al centro e, all’altra estremità, la forza costituita dal grosso e pesante tamburo di pietra che lentamente ritornava a poggiare sul pavimento. Questa operazione veniva ripetuta più volte dopo aver fatto la "scuozzula", cioè togliere dalle vinacce spremute i raspi più grossi eseguendo la diraspatura ossia "sgrappunatura".

Questo tipo di pressa, che costituisce una delle prime macchine inventate dall’uomo nel periodo greco, veniva utilizzata fino a tutto il 1800 ed oltre, quando veniva progressivamente sostituita dal nuovo "cuonzu" o torchio, copiato su quello per l’estrazione dell’olio dalla pasta delle olive, pure di origine greca.



Forcone, dal latino Furca, in francese Forche, in siciliano Furcuni.

È costruito artigianalmente con quattro pezzi di legno lavorato, di cui il più lungo e grosso costituisce il manico che all’estremità più grossa ha fissate, con chiodi e una cordicella di "curina" della palma nana, le tre punte leggermente arcuate dette "ianchi". Serve nel palmento per raccogliere la poltiglia dell’uva, dopo la seconda pigiatura, e buttarla nel tino per la fermentazione del mosto.

Pala, dal latino Pala, in siciliano Pala.
È costruita artigianalmente, generalmente da un unico pezzo di legno di faggio, lavorato in modo da lasciare, alla fine del lungo manico cilindrico, una tavola abbastanza larga sagomata in modo da poter raccogliere, nell’"aria" laterale del palmento, i chicchi e la polpa dell’uva che sfuggono al forchettone, per buttarli nello stesso tino col mosto.

... in siciciano Cancidduzzu i sfussari.


È costruito artigianalmente su una struttura radiale in verga a cui si intrecciano lunghe strisce di canna utilizzate quando non del tutto secche, diversamente devono essere messe a bagno nell’acqua. Ha una forma leggermente troncoconica con due manici contrapposti sui lati, è poco profondo e rifinito con un orlo in verga. Serviva per uscire dal fosso, ossia tino, la poltiglia e i raspi dell’uva da spremere nella pressa del palmento greco.

Accetta, dal francese Hachette, in siciciano Accetta.
Attrezzo da taglio, costruito artigianalmente, a forma di cuneo con leggera testa sopra l’occhio. Ha un lungo manico ed è simile alla scure e all’ascia. Serviva per spaccare la legna, ma nel palmento serviva a ritagliare la poltiglia dell’uva che siaccatastava per la spremitura e per battere, con la parte opposta ossia la testa, i "cippi", ossia le traverse da sistemare prima di abbassare la pressa del palmento greco.

Forcella, dal latino Furcilla, in siciliano Furcedda.
Fotografia vendemmia anni ‘70 in C.da Serra d’Elia, con particolare del palmento Busacca-Marangio relativo all’innalzamento della forcella o leva di secondo genere, che così consentiva di accatastare all’altra estremità prossima al fulcro la poltiglia dell’uva da pressare.

Cianca, dallo spagnolo Zanca, in siciliano Cianca.
Fotografia vendemmia anni ‘70 in C.da Serra d’Elia, con particolare del palmento Busacca-Marangio relativo all’innalzamento della "cianca" trattenuta dal "monicu" al "vituni", o gamba, che, con l’altra estremità, si avvitava alla forcella per fare forza sulla leva di secondo genere che pressava, all’estremità prossima al fulcro, la poltiglia dell’uva.

"A VIRIGNA E U VINU PISTA 'MUTTA" ossia la vendemmia e il fiore di mosto

La vendemmia nella Piana di Vittoria generalmente cominciava verso il 15 di agosto, quando l’uva era matura e in più a quella data, finiti i lavori della raccolta cerealicola, vi era più possibilità di reclutare manodopera. Quindi si "adduvava a ciurma", si reclutava la squadra di operai che veniva guidata dal "suprastanti", ossia caposquadra, che si occupava della vendemmia vera e propria cioè della raccolta dell’uva.

Questa veniva effettuata da almeno 5 o 6 persone, di cui almeno due mulattieri con relativo mulo e i due "cancieddi" portati a barda, così, mentre un mulattiere scaricava al palmento l’uva, l’altro caricava aspettando all’inizio dei filari della vigna. Qui arrivava il "carriaturi", o portatore dell’uva, che la trasportava sulla spalla nella "cruvedda" facendo 6 viaggi per completare il carico. Costui andava e veniva dal mulo all’"antu", ossia al posto di raccolta, dove aveva lasciato la "cruvedda" vuota che il capofila e altri due riempivano con i grappoli o "rappi" di uva, raccolta col coltello e messa nei panieri. Intanto l’uva ossia "racina", a dorso di mulo, arrivava al palmento. Qui, sul retro, dal lato esterno esistevano uno o due "finestrali" con il davanzale rialzato in unica pietra viva sporgente a mezzaluna, dove veniva poggiato uno dei due "cancieddi", mentre l’altro si appoggiava su una grossa pietra a mo’ di tamburo di colonna, che si trovava poco distante e in corrispondenza.

Liberato il mulo, il mulattiere porgeva i due "cancieddi" pieni di uva ad almeno due "pisaturi" che, all’interno del palmento, pigiavano l’uva che scaricavano sul piano inclinato o "aria" laterale "’nvalatata" ossia piastrellata in pietra viva di Comiso, che si allungava poco sotto il livello del davanzale.

Quindi gli uomini trattenendosi, per non cadere, ad una fune penzolante dalla trave del tetto pigiavano a piedi nudi l’uva, il cui succo si riversava da un canale in pietra nel sottostante tino in muratura, passando prima dalla "cruvidduzza i scucciari" che faceva da filtro impedendo ai chicchi dell’uva o "coccia" schiacciati e quindi a buccia, polpa, seme e raspo, ossia a "pogghia", "purpa", "vicciu" e "rappogghia", di cadere nel fossato a forma di parallelepipedo, ossia tino.

Finita la pigiatura si usciva il fiore di mosto che, messo in botte, dava un vino chiaro ossia il tipico "cerasuolo di Vittoria" che si otteneva con la spremitura leggera detta "pista ‘mutta" in quanto si evitava la fermentazione e la commistione di sostanze tanniche che caratterizzano gli altri vini.

Paniere, dal latino Panarium, in siciciliano Panaru.


È costruito artigianalmente su una struttura radiale in verga a cui si intrecciano lunghe strisce di canna utilizzate quando non sono del tutto secche, diversamente devono essere messe a bagno nell’acqua. Ha una forma tronco conica con il manico, nell’orlo, pure in verga e serve per la raccolta di olive, uva, ecc..

Corbello, dal latino Corbula, in siciliano Cruvedda.
È costruito artigianalmente su una struttura radiale in verga a cui si intrecciano lunghe strisce di canna utilizzate quando non sono del tutto secche, diversamente bisogna metterle a bagno nell’acqua. Ha una forma tronco conica con due manici, tutti in verga, poco rialzati rispetto all’orlo e veniva utilizzato per il trasporto dell’uva, dal punto di raccolta, al posto di attesa del mulattiere, dove l’uva veniva scaricata nei "cancieddi", che a dorso di mulo venivano trasportati al palmento.
È costruito artigianalmente su una struttura radiale in verga cui si intrecciano lunghe strisce di canna utilizzate quando non sono del tutto secche, diversamente bisogna metterle a bagno nell’acqua. Ha una forma quasi cilindrica con un grosso orlo, tutto in verga, nel quale veniva passata la corda per legarla agli uncini della "scalidda", utilizzata per il trasporto dell’uva a "barda", o a dorso di mulo, fino al retro del palmento.

..., in sic. Cancieddu.


È costruito artigianalmente su una struttura radiale in verga cui si intrecciano lunghe strisce di canna, utilizzate quando non sono del tutto secche, diversamente bisogna metterle a bagno nell’acqua. Ha una forma tronco conica e, nella parte superiore, una "lumera", ossia un doppio orlo formante un ampio e profondo becco. Serviva per filtrare il mosto che colava dall’apposita canaletta alla quale veniva legato. Cosicché quando il corbello si riempiva di impurità, il doppio orlo faceva da ulteriore filtro.

"I CONZI RA VIGNA" ossia le fasi di lavorazione della vigna

Al secondo anno, il vigneto già sviluppato subiva il trattamento completo che iniziava con la distribuzione del concime stallatico e l’immediata zappatura, che si faceva da ottobre a novembre. Negli anni seguenti tale concimazione si praticava ogni 3 anni. Essa veniva fatta con il concime stallatico messo con il "marru" dentro il "cufinu" simile al corbello e quindi versato nei "cancieddi i fumieri" con il fondo apribile e regolabile da cui fuoriusciva il concime mentre l’animale, che li portava sul dorso, camminava spargendolo in simultanea sui due filari.

Quindi si effettuava la zappatura intorno al piede della vite, della quale così facendo si tagliavano le radici superficiali, liberandola dalla terra, con la quale si faceva un’ampia conca, che raccogliendo le acque piovane autunnali, le faceva penetrare negli strati profondi dai quali saliva l’humor durante i caldi mesi estivi.

Da dicembre a gennaio si procedeva alla potatura che, per non sfruttare la vite, si faceva corta, cioè lasciando al tralcio fruttifero al massimo 1-2 gemme ed eliminando le altre.

Quindi, dalla fine di gennaio a tutto febbraio, si procedeva ad un’altra zappatura, che si eseguiva creando una "canaletta" abbastanza profonda al centro dei due filari delle viti nel senso longitudinale e ad aprile ne veniva fatta un’altra in senso trasversale. Si venivano a creare così quattro "paparuotti" o coni di terra per ogni spazio di quattro viti. Questa pratica serviva per azotare il terreno alla periferia delle viti alle quali nello stesso tempo procurava il rinnovamento delle radici periferiche o "braulami".

Intanto il vigneto ha fatto le nuove gemme o "pulluni" per cui si procede alla "spirucciatura o brucculiatura" o spollonatura, o scacchiatura o sfemminellatura lasciando le gemme più fruttifere.

A giugno si procede all’ultima zappatura, chiamata "conza di ciusu", spianando i "paparuotti" e rincalzando il piede della vite, a cui si addossa un trenta centimetri di terra in più formando il "paparuottu" o cono molto largo, che serve ad attenuare la calura dei raggi solari e per piantarvi il palo di canna. Questo serve a sorreggere la vite nell’ammazzolatura o "ammazzunatura" procedendo quindi al trattamento con polvere di zolfo e solfato di rame, che prima si faceva a mano libera, poi con la "caffittera", quindi con il soffietto a due mani e ultimamente con la pompa a spalla per solforare.

Tale trattamento veniva fatto tutte le volte che il tempo lo richiedeva, cioè nelle giornate di caldo umido per evitare che la vite si ammalasse di peronospora, e fu introdotto sistematicamente dopo la grave crisi vitivinicola avvenuta dal 1798 al 1801 con il "morbo nero".

..., siciliano Marru.








Attrezzo, di costruzione artigianale, in ferro temperato a sezione quadrata, a forma di "U" rovesciata con le estremità appuntite e al centro un occhio, pure in ferro, in cui si introduce il manico in legno. Serve per muovere e raccogliere il concime stallatico, per cui anticamente era altamente offensivo dare del "marru" ad una persona.

Coffa, dallo spagnolo Cofa, in siciliano Cufinu.

Cesta di forma tronco conica, di costruzione artigianale, è costituita interamente in verga di quercia, castagno o olivastro, per essere robusta in quanto, usata per materiali vari o per il concime stallatico, era soggetta ad essere battuta per farlo cadere.

..., in siciliano Cancieddu i fumieri.


Di costruzione artigianale, è interamente realizzato con strisce lunghe di canna messe a bagno nell’acqua e quindi intrecciate nello scheletro, o ossatura, fatto di sole verghe di olivastro di cui, a distanza, vi sono altre strisce per rinforzo. Questo grande cesto, poichéserve per il trasporto del concime, ha il fondo apribile, in modo da spargerlo mentre l’animale, che lo porta a barda, cammina.

Scaletta, dal latino Scala,in siciliano Scalidda.

Essa è costruita artigianalmente interamente in legno sgrossato e si compone di due sbarrette corte che dividono in tre spazi le due sbarrette lunghe e robuste, dove sono incastrate e alle cui estremità sono ricavati, grazie al taglio del legno, altrettanti uncini. Questi servono per legarvi gli oggetti da trasportare sul dorso degli animali, dove la "scalidda" veniva fissata nel senso della lunghezza con una cinghia al centro, che passava sotto la pancia dell’animale.

Essa, costruita artigianalmente, è interamente in ferro battuto e si compone di due sbarrette corte e piatte che dividono, in tre spazi, i due lunghi tondini di ferro in cui sono imperniate e che hanno le estremità ricurve verso l’interno formanti altrettanti uncini. Questi servono per legarvi gli oggetti da trasportare sul dorso degli animali, dove la "scalidda" veniva fissata nel senso della lunghezza con una cinghia al centro, che passava sotto la pancia dell’animale.

Zappa, dal latino Sappa, in siciliano Zappa







Attrezzo, di costruzione artigianale, in lamina di acciaio larga e leggermente ricurva con quattro lati, di cui uno a falce, mentre quello opposto ha un occhio dove si introduce il manico in legno, che viene impugnato con tutte e due le mani per zappare la terra non pietrosa. Era usata nei terreni particolarmente larghi di Acate, Comiso e Vittoria, per la coltivazione della vite.








Forbice, dal latino Forfex (acc. Forficem), in siciliano Fuorfici i putari.


Forbice, tipica dell’artigianato vittoriese, interamente in acciaio con il dado romboidale, per cui veniva dotata di apposita chiave che faceva pure da giravite, in modo da potere smontare non solo la forbice, ma anche la lama da taglio per facilitarne l’affilatura. Questo esemplare ha incisa una "C", che è l’iniziale dell’ex potatore Cognata Giovanni di Vittoria.


Chiave, dal latino Clavis, in siciliano Ciavi.


Costruita artigianalmente in ferro battuto, appositamente per dadi romboidali, funge con l’altra estremità da giravite e serve per smontare completamente la forbice da potare, tipicamente vittoriese, riportata nella foto esplicativa.

Cote, dal latino Cos (acc. Cotem), in siciliano Cuticcia.







Ciottolo di fiume usato per affilare e rifinire il taglio degli attrezzi
come forbici, ecc..

..., in siciliano Caffittera i ‘nsurfarari.

Contenitore cilindrico, di costruzione artigianale, in latta, che dal lato opposto al tappo è tutto bucherellato per spolverare di zolfo le viti nelle giornate di intenso caldo umido. Si impediva così l’insorgere della peronospora, chiamata anticamente "morbo nero", per cui appunto fu introdotta questa pratica di spargere lo zolfo in polvere contenuto nella ciotola prima con le mani, spesso con conseguenze per la salute.

Soffietto, dal latino volgare Sufflatorium, in siciliano Surfarola.


Soffietto a mantice marca "Vermarel" di Casale Monferrato. Deriva dal mantice del fabbro ed è costruito in legno, latta e cuoio che, piegato a fisarmonica, costituisce il mantice vero e proprio. Il soffietto veniva impugnato con le due mani che, quando si allargavano provocavano l’aspirazione dell’aria, e chiudendole l’aria veniva espulsa assieme a una minima parte dello zolfo posto nel contenitore. Questo sistema consentiva una solforata razionale della vigna, superiore a quella fatta con la "caffittera".

Soffietto a mantice marca "Quattro stelle". Deriva dal mantice del fabbro ed è costruito in latta e cuoio





Pompa, dal francese Pompe, in siciliano Pompa i ‘nsurfarari.





Pompa da inzolfare di forma cilindrica marca "Ideal". È costruita interamente in latta e veniva portata sulle spalle grazie a due cinghie di canapa cosicché, mentre con la mano sinistra, innalzando e abbassando una leva, si azionava il mantice per far uscire lo zolfo in polvere, con la mano destra, grazie ad un tubo di gomma flessibile collegato ad una cannula di latta, si indirizzava lo zolfo al posto desiderato.