lunedì 24 gennaio 2011

"U CUONZU" o torchio moderno

L’introduzione del "cuonzu", o torchio moderno, ebbe molto successo in quanto, oltre a ridurre notevolmente i tempi della spremitura dell’uva, consentiva di attuarla in locali alquanto modesti, anche se in un primo momento ci si limitò alla sostituzione dell’antica pressa greca nell’"aria" di centro.

Per cui l’uva, ridotta in poltiglia dai "pisaturi", quando non si infossava per la fermentazione veniva messa nel "cuonzu" dove una sola persona poteva strizzarla rapidamente, mentre il succo continuava a raccogliersi nel solito tino sottostante.

Questo tino era un parallelepipedo, con i lati di m. 1,50 per 2,50 circa e una profondità di 2 o 3 m., dove si poteva scendere grazie ad una scaletta ricavata con delle pietre sporgenti dette "palummeddi" su uno o due lati formanti uno dei 4 angoli.

Dopo avere raggiunto la fermentazione desiderata, il mosto veniva "sfossato", cioè uscito, per metterlo nelle botti. Questa operazione, come quella per uscire i raspi, era molto delicata in quanto la fermentazione del mosto produce un gas molto velenoso insapore e inodore, cioè l’anidride carbonica. Questa, essendo più pesante dell’aria, restava dentro il tino per cui, mentre una persona muoveva l’aria con un sacco od un otre di "lona", un’altra vi scendeva. Al fine di "sfussari" anche l’ultimo residuo di mosto, si immergeva il "bagghiuolu" nella "cupunara", piccolo fosso esistente sul fondo del tino, che così si prosciugava agevolmente fino alla fine.

Più tardi, per evitare tutta questa serie di inconvenienti, si incominciò a pestare l’uva dentro il tino di legno posto vicino al cuonzu o torchio moderno dove si continuavano a mettere per strizzarli i raspi, il cui succo veniva ora raccolto già filtrato in un altro tino di legno.

Da qui, con dei "lannuni", veniva versato nella quartara da mosto per misurarlo e quindi versarlo, con appositi imbuti, nei "carratedda" o nelle otri di olona, per trasportarlo alla "rispenza", dove veniva versato nelle botti. Queste, quando erano nuove, prima venivano pulite con acqua calda in cui si erano fatte bollire delle foglie di alloro o altre erbe aromatiche o si sciacquavano con del vino buono. Quindi le botti venivano disinfettate con vapori di zolfo con il "pipituni", che non vi lasciava cadere le gocce di zolfo acceso.

Infine, le botti venivano riempite fino ad un certo punto con il mosto, che vi si travasava dalle otri o dai "carratedda" grazie al relativo imbuto.

Finita l’operazione, la botte non si poteva chiudere in quanto il mosto doveva completare la sua fermentazione per diventare vino, per cui il buco veniva chiuso da una "scutedda o pignata", fatta in argilla con tanti fori, che mentre consentiva la fermentazione, impediva agli animali di cadere dentro le botti.

Torchio, dal latino Torculum (dall’espressione latina Concinnare torculum, disporre il torchio, divenuta nel tardo latino Conciare), in siciliano Cuonsu.


Di costruzione industriale, esso si compone di una grossa e pesante base (1680) di forma quadrata, poggiante su 4 piedi in legno, con al centro fissata un’alta vite in ferro massiccio. Nella parte alta della vite è posizionato il cricchetto (1684), tutto in ferro, che viene mosso dallo spostamento in avanti e indietro della leva, pure in ferro pieno, e a seconda della posizione dei salterelli sale o scende. Alla base del torchio poggia il "cannizzu" (1683) che è realizzato, in due parti, con una serie di listelli di legno imbullonati su tre semicerchi di ferro piatto, e quando le due parti sono chiuse formano un cilindro dentro il quale si butta la poltiglia dell’uva pigiata. Al di sopra di questa si posiziona il "timpagnu" (1681) del torchio, costituito da due semicerchi di legno molto spessi che coprono tutta la circonferenza del "cannizzu". Quindi sopra il "timpagnu" si posizionano i "cippi" (1682) di legno a due a due "capiati", cioè alternati, aggiungendo gli altri a mano a mano che l’uva pressata diminuisce di volume, facendo fuoriuscire il mosto dalla canaletta in ferro. Qui è posizionato il "crivieddu" (1701) che è un semicilindro in tondino di ferro imperniato, per trattenere le impurità che fossero passate dal "cannizzu", mentre il mosto scorre nella "menza tina", come si vede dalla foto esplicativa.









Tino, dal francese Tine, in spagnolo Tina, in siciliano Tinu.

L’esemplare di cui trattasi, di costruzione artigianale, per la capacità pari a litri 75 circa, può definirsi più precisamente mezzo tino. Esso è costruito con tutta una serie di tavole di castagno, dette doghe, tenute assieme da tre cerchi di ferro piatto sottile, di cui quello più in basso trattiene pure il fondo, detto "timpagnu". Serve quale contenitore e, nella vendemmia, per la pigiatura dell’uva, come pure per raccogliere il mosto ricavato dalla torchiatura della poltiglia dell’uva.

Tinozza, dal francese Baille, in siciliano Bagghiuolu.

Esso è costruito artigianalmente con tavole di castagno, o doghe, al centro leggermente curve e tenute assieme da cerchi in ferro piatto di cui quello inferiore trattiene il fondo, o "timpagnu", mentre sotto il labbro superiore vi è un manico di legno leggermente decentrato. Serve per il trasporto e travaso di mosto, vino, ecc.. Ve ne sono di varie capacità, quello in oggetto è di 15 litri circa ed è stato realizzato dall’artigiano bottaio di Vittoria Vincenzo Scivers sul modello antico.








Bidone, dal francese Bidon, (poiché in latta) dal latino Lamna, in siciliano Lannuni.



E' ricavato tagliando il coperchio da un vecchio bidone di latta di circa 20 litri utilizzato per olio, benzina, ecc., come quello in questione che è della Shell, e mettendovi un manico di legno leggermente decentrato. Questi "lannuni" sostituirono gli antichi "bagghiuoli" molto più pesanti e costosi e furono utilizzati per travasare mosto, vino,ecc..

























Quartara, dal latino Quartarius (1/4 del Sextarius), in siciliano Quartara.

Essa è costruita artigianalmente con tavole di castagno, dette doghe, tenute assieme da 5 cerchi in "raetta", ossia ferro piatto sottile, di vari diametri in quanto dal profilo leggermente bombato della parte inferiore si passa a quello troncoconico nella parte superiore, dove vi sono due manici contrapposti, pure in ferro piatto, incastrati nel cerchio del labbro e nel penultimo. Essa, della capacità di 15 litri circa, serviva per il travaso di mosto, vino, ecc..











Quartara, dal latino Quartarius (1/4 del Sextarius), in siciliano Quartara i mustu.

È costruita tutta in latta stagnata. È formata dal collo, o "cuoddu", di forma cilindrica che è attaccato ad un ampio e stretto troncocono, chiamato "pillirina", a cui segue la "panza" che è un cilindro leggermente svasato e chiuso nella parte più stretta da un fondo. Questo è protetto dal "circu" in larga "raetta", ossia sottile ferro piatto, mentre un altro cerchio, molto più stretto, è messo a protezione del labbro nel collo, dove sono saldati i caratteristici manici realizzati con sei pezzi di "cannola", tubi di latta. La quartara da mosto serviva per la "cunsinna" in forma privata dello stesso, cioè per la misurazione ed era della capacità di 10 litri fino al buco che, quasi sempre, veniva tappato per abbondare in considerazione del fatto che il mosto, essendo in fermentazione, era più voluminoso del vino.

Carratello, dal basso latino Carrata, in siciliano Carratieddu.








È costruito artigianalmente con tavole di castagno sagomate, dette doghe, tenute assieme dai cerchi in "raetta", o ferro piatto sottile, di cui quelli estremi trattengono anche il fondo e il coperchio detti "timpagni", mentre nella pancia vi è il foro per riempirlo. L’esemplare di cui trattasi, con le iniziali "L. P." incise a fuoco, della capacità di 30 litri circa, per la sua struttura particolarmente alta e stretta serviva per i trasporti di mosto, vino, ecc., a barda, prendendo il nome di "carratieddu a catanisa", in quanto questa forma conservò nel tempo le sue caratteristiche in quel territorio.
È costruito artigianalmente con tavole di castagno sagomate, dette doghe, tenute assieme dai cerchi in "raetta", o ferro piatto sottile, di cui quelli estremi bloccano il fondo e il coperchio ovalizzati, detti "timpagni", mentre nella pancia, ora schiacciata, vi è il foro per riempirlo. L’esemplare di cui trattasi, della capacità di 50 litri circa, per la sua forma pronunziatamente ovale serviva per il trasporto di mosto, vino, ecc., a barda, prendendo il nome di "carratieddu a sirausana", in quanto conservò nel tempo questa forma in quel territorio.










Otre, dal latino Uter, in siciliano Utru i lona.







Recipiente di circa 40 litri, per il trasporto soprattutto di mosto, fatto con tessuto di cotone compatto e resistente, fabbricato artigianalmente con filati grossi. Ha la forma di un sacco rettangolare col lato superiore che si restringe a forma di imbuto, la cui bocca veniva attorcigliata e legata con una cordicella cucita ad un’estremità, mentre all’altra estremità vi è un manico dello stesso tessuto.















Imbuto, dal latino Imbuere (p.p. Imbutum), in siciliano Mutu i carratedda.

Costruito artigianalmente, di forma troncoconica, è costituito da tante strisce di tavole di castagno, dette doghe, unite da due cerchi di ferro piatto sottile, o "raetta", di cui quello inferiore trattiene il fondo sul quale, in posizione decentrata, si trova un "cannuolu" che si introduce nel buco delle botti, e più propriamente dei "carratedda", infatti ha due piccoli piedi sporgenti, nel lato opposto al "cannuolu", per restare in posizione orizzontale. Come si può vedere dalla foto esplicativa, serve per travasare liquidi, ma soprattutto mosto e vino.

Imbuto, dal latino Imbuere (p.p. Imbutum), in siciliano Mutu i carratedda.

L’imbuto, costruito artigianalmente interamente in latta, come dalla targhetta in rame, era di un certo Lo Monaco Francesco. È formato da un cilindro, ossia "pavera", che nella parte superiore ha un rinforzo, ossia "rinfasciu", in ferro piatto o "raetta". Nel lato interno vi è la "contrapavera", che serviva, durante l’operazione di travaso, ad impedire la fuoriuscita del liquido. Al di sotto del cilindro si attacca il cono, chiamato "pillirina", a cui segue la "cannedda", ossia cannula, con tre fili di ferro saldati sulla verticale che servono per non fare aderire la cannula al foro, permettendo così la fuoriuscita dell’aria a mano a mano che entra il vino, come si può vedere dalla foto esplicativa.






















Botte, dal tardo greco Boutis, in basso latino Butta, in siciliano Vutti.

Si tratta di un recipiente di "quattru carrichi" pari a 320 litri, costruito artigianalmente con tavole di castagno, ossia doghe, che vengono tenute assieme da una graduata serie di cerchi in "raetta", ossia ferro piatto sottile, di cui quelli estremi trattengono il fondo e il coperchio, chiamati "timpagni". In quello anteriore, come si può vedere, vi è una "purtedda", ossia portello, togliendo il quale si può pulire di tanto in tanto la botte dai residui del mosto, che si introduce dall’apposito foro della botte esistente in alto sulla pancia. Da notare, al disotto del "cugnu" che trattiene la "purtedda", il "cicaluoru", in osso di corno, che serve per modesti prelievi di vino o assaggi.

Zolfo, dal latino Sulfur, in siciliano Surfuru.






Si tratta di pastiglie di zolfo e cordicelle di zolfo con anima di cotone, ossia miccia, di produzione industriale. Sia l’una come l’altra si accendevano e si introducevano nella botte vuota, lasciandole sospese ad un fil di ferro nel foro della botte, posizionato in alto. Lo zolfo bruciando produceva anidride solforosa che, essendo più pesante dell’aria non usciva dalla botte fin tanto che non si fosse riempita del gas venefico, che così uccideva eventuali microrganismi, come muffe, ecc.. Questa operazione, ossia la "’nzurfarata", si faceva 24 ore prima di riempire la botte col mosto.





Pituita, dal latino Pituita, in siciliano Pipituni.

Strumento, costruito dal lattoniere Giuseppe Di Marco, ex allievo di Zarino Vincenzo, in lamiera zincata con il corpo principale a forma di cono, nel cui fondo poggia una vaschetta con lo zolfo acceso. E poiché lo sportellino è traforato consente di alimentare la combustione dello zolfo i cui vapori, attraverso le cannule, ossia "beccu", potevano entrare nella botte da disinfettare, evitando l’inconveniente della pasticca o della cordicella di zolfo che, durante la "‘nzurfarata", lasciavano cadere gocce di zolfo acceso con conseguenti rischi. Questo apparecchio è stato realizzato e introdotto sul mercato per la prima volta dal lattoniere Zarino Vincenzo all’inizio del 1900.




















Imbuto, dal latino Imbuere (p.p. Imbutum), in siciliano Mutu i utti.

Costruito artigianalmente con larghe tavole, dalla fine del 1800 generalmente l’interno veniva rivestito di latta, ha la forma di parallelepipedo leggermente piramidale, nella parte più stretta del fondo vi è una grossa "cannedda", o cannula, di lamiera e dal lato opposto due piedi in legno. Serviva per travasare il vino nelle grandi botti e vi si posavano sopra fino a due e più "carratedda" segnandoli, a mano a mano, col gesso sul lato anteriore, come si può vedere dalla foto esplicativa.


























Scodella, dal latino Scutella, in siciliano Scutedda.
Palombo, dal latino Palumbus, in siciliano Palummedda.
Pignatta, dal latino Pineata, in siciliano Pignata.


L’oggetto, a forma di grossa cipolla o ampolla, è costruito artigianalmente in argilla ed ha tutta una serie di fori, fatti prima della cottura, nella parte superiore. Il gambo, affusolato e vuoto come il resto, veniva introdotto nel foro della botte appena riempita col mosto a mo’ di tappo, come si può vedere dalla foto esplicativa. Ciò consentiva al mosto di continuare a completare la sua fermentazione senza conseguenze per la botte, evitando che qualche animale vi cadesse dentro. Dei diversi nomi con cui viene chiamato l’oggetto in questione, quello più rappresentativo ci sembra "pignata".

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